Erica Poli: Jung ha anticipato le neuroscienze
Erica Francesca Poli è psichiatra, psicoterapeuta e couselor. Propone a chi la segue vari percorsi basati su metodi e strumenti diversi tra cui anche il Libro Rosso di Carl Gustav Jung, usato in modo personalissimo. Quale è il rapporto della dottoressa Poli con Jung e la psicologia analitica?
Oggi la psicanalisi è per così dire passata in secondo piano. Spesso le si preferiscono le neuroscienze e gli approcci corporei. Perché?
Le neuroscienze hanno cambiato il paradigma perché hanno dato delle evidenze scientifiche ad alcuni aspetti che hanno spostato l’attenzione dalla riflessione intellettuale al sentito, al percepito. C’è un termine inglese che rende molto bene quest’idea: felt sense, il senso del percepito. In altre parole il prestare un’attenzione esplorativa, non giudicante, amorevole al tuo percepito. Si tratta di un’attività molto raffinata della nostra corteccia, unita all’attivazione del sistema limbico, che è invece il cervello più antico quello che condividiamo con i mammiferi e che è quello della vita istintiva che regola sia il vissuto emozionale che la vita vegetativa e ormonale. Quindi una specie di crocevia tra la mente e il corpo. Il felt sense unisce capacità riflessiva e capacità istintiva ed è quello che fa fare quel salto di neuroplasticità che trasforma il carattere. Questo tipo di ascolto viene usato come dicevo da tutte le tecniche corporee, ma il termine è stato coniato da Eugene T. Gendlin, un filosofo che ha creato la tecnica del Focusing. Tutte le tecniche corporee che provengono dalle neuroscienze si basano su questa attenzione al percepito. Si è notato che quando prestiamo attenzione non con la mente, ma con il sentire, ad un certo punto, quasi magicamente, accade quello che viene chiamato un body shift, un cambiamento fisico perché c’è stata una straordinaria interazione tra il dato corporeo e il significato. Per tornare alla psicanalisi, direi che sensazione e simbolo si integrano, il che secondo me è molto junghiano.
Tuttavia la maggioranza degli psicanalisti junghiani contina a privilegiare il ragionamento intellettuale…
Nella psicanalisi junghiana esiste comunque una profonda conoscenza dei miti, dei simboli. Jung ha passato la vita ad ascoltare il percepito.
Lei usa il Libro Rosso di Jung in un modo che si potrebbe definire poco ortodosso. Inoltre integra la psicanalisi con altre tecniche. Come è arrivata a ciò?
Sono eclettica per natura. Credo che ciò sia dovuto alla mia innata curiosità, ma anche alla mia forma mentis che tende a integrare il sapere, a mettere in relazione una materia con l’altra per avere un quadro più grande. Ho sempre faticato a ragionare per compartimenti stagni. Per dare un’idea del mio percorso: ho iniziato con un’esperienza di ipnosi, poi ho seguito la Psicosintesi assagioliana, poi sono passata al “Rêve éveillé” di Desoille, da lì ho fatto la prima analisi junghiana, poi un’analisi freudiana e infine mi sono aperta alle neuroscienze e a varie forme di psicoterapia centrate sulle emozioni e infine a tutta la parte energetica. La mia preparazione si potrebbe paragonare a una cassetta di attrezzi da cui io pesco a seconda della persona e della situazione. Tuttavia se dovessi citare un referente spirituale lo troverei sicuramente in Jung piuttosto che in Freud. Jung ha oltretutto un lato concreto che corrisponde al medico che c’è in me. Non voglio sembrare pretenziosa, ma sento grandi affinità con Jung: come me era psichiatra, ha lavorato in ospedale, poi ha aperto il suo studio e ha iniziato un suo percorso di ricerca, senza disdegnare gli aspetti esoterici perché è stato un grande studioso di Alchimia e del mondo orientale. Tuttavia ha sempre avuto un approccio più pragmatico che speculativo e astratto. Jung, come me, amava provare, sperimentare su di sé ciò che proponeva ai suoi pazienti.
I suoi seminari sul Libro Rosso sono percorsi brevissimi che secondo lei portano all’individuazione, il massimo traguardo della psicanalisi junghiana. Per lei quindi l’individuazione non è ciò che eventualmente si può raggiungere solo dopo un lungo iter psicanalitico?
Jung diceva una cosa che per me è rimasta come un traguardo al quale tendere: secondo lui un bravo psicologo analitico (usava questo termine invece di psicanalista per distinguersi da Freud dal quale si era separato) ipoteticamente vede il paziente anche una volta sola. Questo perché trova immediatamente il complesso centrale, o il dilemma centrale attorno al quale il paziente si costella e glielo restituisce in una forma tale che egli lo possa integrare, raggiungendo l’individuazione, che a mio modo di vedere è un punto di arrivo ma anche un punto di partenza.
In che senso?
Nel senso che durante una seduta di psicoterapia ci sono dei momenti in cui si arriva alla congiunzione degli opposti. Il problema è poi mantenerla e farla diventare testimonianza di vita, che è quello che ha cercato di fare Jung. Jung infatti dice che la sua vita è stata un viaggio di autorealizzazione dell’inconscio. Quindi la cosa difficile è permettere all’inconscio di autorealizzarsi nella vita. Per arrivare a ciò bisogna poter capire che la vita è un viaggio attraverso gli eventi, le persone e gli incontri come fatti contingenti, come aspetti esteriori di un Sé che si sta manifestando. Bisogna saper rinunciare al controllo della mente. Il che è molto orientale. Del resto Jung era vicino al pensiero orientale se è vero che l’ultimo testo che ha letto prima di lasciare il corpo è stata una poesia Zen che fa capire la differenza tra la realtà vista dalla mente che giudica e la realtà vista dal Sé che vive nella natura. Quindi nelle sue ultime ore Jung ha riflettuto su un testo che parla della necessità di abdicare al bisogno di definire. Avere questo coraggio secondo me è l’individuazione. Sono certa che un bravo psicoterapeuta può scoprire molto rapidamente quale è il dilemma centrale di una persona. Il punto è poi farlo arrivare al paziente e aiutarlo a incarnarlo. Anche qui Jung dice una cosa potentissima: “Abita il tuo conflitto”. In tutti i suoi lavori sull’ombra, Jung afferma che solitamente i pazienti vengono da lui per essere liberati dal conflitto, mentre lui al contrario è costretto a farli stare proprio lì, dove non vogliono stare. Quindi, per tornare alla domanda, non penso che l’individuazione sia inarrivabile, anzi, penso che quando avviene trasforma: la vita non è più la stessa. Ci vuole il coraggio di restarci.
Un’ultima domanda: Jung diceva che se qualcuno giunge all’individuazione, in un certo senso “salva” retroattivamente anche i suoi genitori e i suoi antenati. Ciò naturalmente fa pensare alle Costellazioni familiari che però sembrano proporre il processo inverso, ossia: scopro i conflitti dei miei antenati per risolvere i miei. Che cosa ne pensa?
Ho molti pazienti che arrivano da me dopo aver tentato vari percorsi, tra cui anche le Costellazioni. Da notare che ho studiato Hellinger e che le Costellazioni come le propone lui mi sembrano molto belle. Il problema è che molti seguaci di Hellinger praticano le Costellazioni con una logica lineare, ossia con l’idea che tutto sia regolato da un meccanismo di causa-effetto. Questa è una delle trappole in cui cadono gli esseri umani e in particolare gli Occidentali. È un meccanismo che presuppone un flusso di tempo dal passato al presente e al futuro, in altre parole qualcosa che è successo prima determina ciò che succede adesso. Quindi, i costellatori pensano che, trovata la causa, risolveranno il problema. Questo modo di pensare caratterizza anche la visione freudiana della psicanalisi: troviamo il trauma originario e il problema scomparirà. In realtà si tratta di un’illusione. Nel caso delle Costellazioni poi c’è l’aggravante che devi affidarti al costellatore e al campo energetico, credendo tutto ciò che ti viene detto. Non voglio dire che a volte non vi siano delle corrispondenze che colpiscono emotivamente e che ottengano un certo effetto. Tuttavia da quanto ho potuto constatare con i miei pazienti, da costellatori diversi si ottengono soluzioni diverse. Inoltre, anche energeticamente, non si tratta di un processo sempre favorevole perché, se è vera la fisica quantistica, o quantomeno se è vero il concetto già enunciato da Einstein che in realtà il tempo è curvo, allora tutti i tempi sono presenti assieme e quindi, dal momento in cui agisci su un tempo in realtà agisci su tutti gli altri, un po’ come quando fai l’upgrade del computer che modifica automaticamente tutti i file. Ma se qualcuno di questi file non sostiene il nuovo sofware, allora lo perdi e quindi rischi di perdere delle parti di te. Secondo me le Costellazioni vanno bene per esplorare varie ipotesi, ma non sono una terapia. Inoltre alimentano ancora una volta l’idea meccanicistica che bisogna trovare un perché in qualcosa che è successo prima. Jung cent’anni fa aveva già capito l’assurdità di una simile teoria. Questo del resto è stato uno dei motivi del suo disaccordo con Freud. Freud dice che l’inconscio è una specie di armadio per gli scheletri, un contenitore di fantasmi, di nevrosi. Per Jung invece l’inconscio è il serbatoio della nostra ricchezza, ci connette all’incoscio collettivo e contiene tutti i simboli dell’umanità, anche i più antichi. Quindi se Freud ha l’idea molto meccanicistica di riportare il sintomo a un trauma, Jung articola. Se possiamo rappresentare il processo freudiano come un vettore che torna in un punto, il processo junghiano è una ramificazione che tocca più significati e li sposta su più livelli. Perciò quello che ha un significato nel piano di coscienza ordinario, nel piano dei simboli ne ha un altro e ti arricchisce.
Jung in pratica aveva capito che prendersela con i propri antenati è un metodo di basso profilo intellettuale e culturale. Afferma infatti che chi inizia il processo di individuazione comincia ad avvicinarsi all’inconscio e lì trova gli archetipi, ossia dei grandi contenitori di signifcato, e solo grazie a questi può cominciare a capire che posizione occupa. Jung afferma che il processo di individuazione non affranca dagli antenati, ma dall’identificazione con il ruolo assunto.
C’è un bellissimo passaggio del vangelo di Giovanni che dice:
In principio era il Verbo (che viene tradotto anche con il Figlio)
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
Quindi se in principio era il Logos, ossia il Figlio, ossia l’emanazione di Dio, vuol dire che il Figlio, ossia noi, che giudichiamo l’operato dei nostri genitori, siamo noi in principio. In realtà è solo il Verbo, ciò che diciamo, che definisce ciò che è stato prima. E il Verbo era presso Dio, ossia il Figlio era presso il Padre. E il Verbo era il Padre, e il Figlio era il Padre. E tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. Senza il Figlio che riconosce, niente di ciò che ha fatto il Padre esiste. Questo ribalta totalmente il problema: non è il padre che causa la situazione. La causa è il figlio che lo giudica. Il punto importante è che, se capiamo questo, capiamo che siamo noi l’ago della bilancia di ciò che c’è nella nostra vita, in base a come giudichiamo. Infatti nella prefazione al Libro Rosso, Sonu Shamdasani dice, citando Jung, che noi cominciamo a liberarci dall’inconscio collettivo quando capiamo che il nostro destino è determinato da ciò che diciamo e dal nostro giudizio. Questo ribalta il concetto di causa-effetto e situa la causa nel presente, introducendo il principio quantistico di inversione del flusso del tempo, o il concetto di tempo circolare che era già del mondo greco. Quindi, se il figlio smettesse di sentirsi vittima per entrare in un archetipo alchemico, capirebbe che ciò che dice in bene o in male del Padre potrà cambiare ciò che esiste.
L’individuazione è semplicemente la congiunzione degli opposti che libera dall’essere condizionati da ciò che gli archetipi agiscono in noi. È un passaggio coscienziale, è un processo alchemico in cui la sostanza di cui siamo fatti cambia. Credevamo di essere fatti di paure, dolori, torti e invece cambiamo radicalmente.
È molto affascinante.
Il suo grande pregio è di rendere la vita bella comunque. La vita è un viaggio di autorealizzazione e non una sequela di imprevisti a cui dobbiamo far fronte. Se vivi in questo modo, scopri che la vita ha un senso, indipendentemente da ciò che c’è dopo.
Per saperne di più http://www.ericapoli.it
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