Arthuan Rebis: musica celtica ma non solo
Arthuan Rebis è il nome d’arte di un musicista e scrittore italiano che canta canzoni di sua composizione accompagnandosi con l’arpa celtica. Recentemente ha pubblicato “Helughèa”, un romanzo che parla di un mondo magico ma anche di legami familiari, di morti e rinascite e di trasformazione alchemica.
Come sei arrivato a interessarti di cultura celtica?
L’interesse per le culture arcaiche senza discriminazione è nato molto presto in me. Fin da adolescente, quasi da bambino, ho iniziato a leggere le enciclopedie che avevo a portata di mano e che trattavano di parapsicologia, di occultismo, di esoterismo. Questi testi giocoforza citavano spesso l’Oriente, la Grecia, il Medioevo. Quindi ho iniziato a interessarmi al passato. Poi, crescendo, ho cominciato ad ascoltare varie musiche, vari gruppi. A quei tempi esistevano già delle sottoculture musicali che utilizzavano simboli e sonorità della cultura celtica. Questa è entrata immediatamente in risonanza con la mia sensibilità, una sensibilità che, ne sono convinto, mi porto dietro da innumerevoli vite, come tutti noi. Così è nata la fascinazione per quella che Alan Stivell chiama la “celtitudine” che è un senso che riguarda prevalentemente un animo nostalgico, malinconico. Questa della malinconia è una componente importante della celtitudine. È un po’ come la “saudade” per i brasiliani.
Perché questa malinconia?
Penso che sia essenzialmente perché la cultura celtica nonostante sia fiorita nei miti e nel folclore ha lasciato poche tracce originali. Inoltre le suggestioni dei paesaggi interiori ed esteriori, sia nelle poesie che ci sono arrivate da Taliesin in poi e nelle musiche, riguardano sempre atmosfere nebbiose, nordiche, l’oceano tempestose
Perché dici che la cultura celtica ha lasciato poche tracce?
Perché le sue radici stesse sono state distrutte. Il druidismo è stato sradicato. Quindi si è trattato di ricostruire, di immaginarsi, di comparare con altre culture vicine per ritrovare un senso di spiritualità in quel campo. L’arpa celtica che è lo strumento bardico per eccellenza è stata vietata, gli arpisti sono stati condannati a morte dalla corona nel corso dei secoli, proprio perché rappresentavano quella indipendenza, quei valori tradizionali. Questi valori del resto sono cambiati nel corso dei secoli perché gli irlandesi si sono catolicizzati pur mantenendo certe tradizioni, infatti la loro cultura è uno strano ibrido.
Come la cultura bretone…
La cultura bretone è oggi l’incarnazione della celtitudine perché i bretoni se la sono ricostruita partendo dal nulla. Il revival dell’arpa celtica nasce proprio in Bretagna con Alan Stivell. Vorrei aggiungere che la cultura bretone è un esempio di identità nazionale che non implica nessuna intolleranza nei confronti delle minoranze etniche.
Tu oltre all’arpa suoni diversi altri strumenti?
Sì, suono la chitarra, il buzuki, gli strumenti ad arco come la nikelharpa che è uno strumento della cultura nordica, poi anche strumenti a fiato come flauti e cornamuse.
E canti e componi canzoni. Ti ispiri prevalentemente alla musica celtica?
Prevalentemente ma non solo. Oggi per musica celtica si intende soprattutto la musica irlandese, Ma, se andiamo a vedere, i celti non avevano gli strumenti che abbiamo oggi, come ad esempio le cornamuse. La stessa arpa celtica era molto diversa da quello che è oggi. Era molto più piccola. Quindi la musica celtica era una musica arcaica, molto diversa da quello che è oggi la musica dei paesi che si dicono di cultura celtica. La musica arcaica è simile in tutto il mondo. Se studi la musica arcaica trovi tante similitudini tra la Grecia, l’India e la Bretagna. Perciò traggo ispirazione anche dalla musica orientale e dalla musica medievale. Ma mi ispiro anche a musiche molto più recenti, dal Progressive degli anni Settanta, al Folk, alla musica Darkfolk.
Parliamo del tuo libro: Helughèa. È esatto che ti è stato ispirato in una notte?
Sì, è vero. Mi è arrivato in un sogno nella notte dell’8 gennaio del 2020. È stato come un download. Per tanti anni avevo cestinato dei romanzi. Avevo pubblicato un saggio sulla musica e le tradizioni spirituali e stavo per pubblicare un saggio molto grande in cui parlavo della creazione artistica nella storia dell’umanità e la sua connessione con le dimensioni invisibili. Era un’opera molto ambiziosa, ma con il Covid la casa editrice ha annullato la pubblicazione. In seguito non ho più voluto pubblicarlo perché mi sono convinto che necessiti molto più lavoro di revisione. Poi mi è arrivata questa storia. Nel sogno c’era un mio antenato che in qualche modo non era lui. Aveva un corpo di foglie, fango e oro, mi faceva pensare ai quadri di Arcimboldo. Insieme abbiamo oltrepassato una soglia attraverso la chiave della musica, poi lui si è girato, mi ha guardato negli occhi e mi ha trasmesso tutta la storia. Mi sono svegliato con il “fuoco nella testa” come viene chiamato nelle tradizioni celtiche e mi sono messo a scrivere. Ho scritto per varie ore, delineando tutta la vicenda in modo sommario.
La vicenda è di natura fantastica e ricorda per certi versi le opere di Tolkien, ma con alcune differenze sostanziali. Innanzitutto ci sono dei personaggi moderni che intervengono nel mondo “magico”. Inoltre, mentre Tolkien mette in scena una lotta fra il bene e il male, tu tendi alla fine a un recupero dell’ombra.
Sì, c’è una luce junghiana che amplifica tutto il senso della vicenda. C’è anche una visione buddhista, perché io studio da anni il buddhismo tibetano, dove si insiste nell’educare la mente a superare la visione dualistica e l’esistenza intrinseca dei fenomeni, perciò anche del male, perché nessuno nasce malvagio. Quindi esiste una relazione di interdipendenza che si muove attraverso le vite e le rinascite dei personaggi che vengono visti in quella luce. A volte per semplificare dico che il mio romanzo è un fantasy, ma in realtà lo vedo come un athanor che fa elaborare dei simboli in maniera diretta, un po’ come ha fatto Jodorowsky ad esempio. Jodorowsky è stato un grande amore della mia adolescenza, poi l’ho abbandonato per un un po’ per una serie di disaccordi. In seguito però l’ho rivalutato completamente. Ormai è il solo grande personaggio del Novecento che ci rimane ancora in vita. Il suo è il discorso della Metagenealogia, che poi era anche quello di Gurdjieff e di altri prima di lui. Ma Jodorowsky lo ha reso più accessibile.
Hai altri progetti di scrittura?
Sto già scrivendo la continuazione di Helughèa.
Arthuan Rebis, Helughèa, Eterea Edizioni